La cura silenziosa di Minorca.

Oggi è l’ultimo giorno e anche il cielo è un po’ triste. Ne approfitto per scrivere due pensieri che rimarranno, che rileggerò, quando sarò troppo presa dalla frenesia e avrò bisogno di tornare nella calma.

C’è una magia che si respira nell’aria di Minorca. Qualcosa di sottile, quasi impercettibile, che ti avvolge lentamente, rispettando, però, il tuo tempo.

Le vibrazioni di questa terra ti invitano ad ascoltare, a rallentare, a sentire…e proprio questo è il suo dono più grande: la calma.

È un incontro con se stessi, un momento in cui la frenesia del mondo si dissolve, lasciando spazio alla contemplazione.

Silenzio e quiete.

Non ti nascondo che ci sono voluti un paio di giorni per trovare la giusta frequenza. Mi viene in mente una vecchia radio: per captare il canale giusto, deve essere sintonizzata con precisione, e la rotellina va girata con cura millimetrica per trovare il segnale.

Minorca vibra a modo suo e per sentirla devi stare al suo ritmo, lento e silenzioso.

Quando ho deciso di stringerle la mano e di iniziare a conoscerla mi sono sentita bene.

Ogni giorno, sono guarita

un po’ di più.


Sono rimasta profondamente colpita dalla cura con cui quest’isola viene trattata, si percepisce subito quanto sia amata.

È come se un giardiniere invisibile fosse costantemente al lavoro, ovunque, a prendersi cura di ogni angolo.


S’Albufera des Grau è il parco naturale più importante di Minorca. Ha oltre 5.000 ettari ed è uno dei punti chiave della Riserva della Biosfera di Minorca.

Ogni angolo di Minorca sembra essere custodito con la stessa attenzione e dedizione che si riserva a un giardino privato.

Le strade sono impeccabili, i sentieri sembrano tracciati con mano esperta. Le spiagge, curate e pulite, sono un piccolo gioiello, dove ogni dettaglio riflette un rispetto profondo per l’ambiente. La gestione dei rifiuti è efficiente, segno di una comunità che ha a cuore la sua terra e i turisti, a loro volta, mantengono l’impegno.

C’è un rispetto tangibile per la natura e per il patrimonio locale. Questa attenzione rende l’esperienza ancora più speciale, facendoti sentire come un ospite privilegiato.

Questa pulizia valorizza ancor di più i colori e i contrasti. Tutta l’attenzione si concentra sulla bellezza del luogo, non una sbavatura, e anche i pensieri si ripuliscono del tutto.

Ogni scorcio sembra una cartolina, un dipinto impressionista che cambia con la luce del giorno.

Davvero stupefacente.

Sentiero che conduce a platja de Cavalleria
Platja de Cavalleria, assolutamente la mia preferita.

Tornerò a Minorca con il corpo molto presto, ma con la mente molto più spesso.

In ogni momento di frenesia, sarà qui che tornerò.

Il contatto con questa terra mi ha riportato a qualcosa di primordiale, a quella connessione profonda che spesso dimentichiamo nel caos quotidiano.

Questa vacanza, apparentemente semplice, è stata per me una cura preziosa.

Un richiamo costante alla quiete, un invito a rallentare e a riscoprire quella pace che,

anche lontana, rimarrà con me.

Erica, anzi Atmosferica

Erica anzi, Atmosferica

Leggo sulla mia pelle “Atmosferica” e mi chiedo se sono ancora io, ripenso a quel giorno in cui mi sono sentita tanto grande e coraggiosa al punto di sentirmi parte del cielo, Atmosferica, colei che circonda e protegge, che sta alta e senza paura.

Tanto grande da sentire il mio nome far parte del cielo, sulla pelle.

Ripenso a quel giorno.

Vado così a scavare tra i ricordi e tra le sensazioni che correvano veloci e spavalde lungo la mia colonna vertebrale.

Non avevano paura di nulla, né della velocità, né della lontananza.

Ritorno a quel momento in cui la decisione di scrivere e condividere era prima di tutto l’esigenza di urlare al mondo quanto fossi orgogliosa di me stessa e, in secondo luogo, era il bisogno di scavare nella mia anima tenendo le fila di tutto quello che ne sarebbe stato. 

Era novembre e io sentivo l’estate in arrivo.

Arrivava il freddo, quello potente.

Volavo verso il caldo, che riempie.

Atmosferica nasce dalla voglia di comunicare e di riflettere, nasce dal bisogno di mettere per iscritto lunghe riflessioni e attimi indelebili, sofferenze insofferenti, solitudini mai condivise e consapevolezze di pura gioia, la nostalgia di casa, l’imprevedibilità delle scelte e la sorpresa di un incontro. 

Con me stessa.

Nasce per farmi scoprire quante cose stanno dentro senza mai uscire.

Nasce per farmi capire che esiste un modo per farle uscire, per stare bene.

Atmosferica è diventata sfacciata nel giro di poco ed è riuscita a urlare ogni segreto dell’anima, ogni scoperta profonda che capitava lungo la strada o che si palesava dopo troppa ricerca.

Con riservatezza.

La verità è che Erica è ancora in viaggio e non si è mai fermata e Atmosferica è in continua attesa di risposte ed equilibri, di continuità, di costanza, di una zona di comfort mai creata. 

Appositamente.

Forse per cercare forza, energia nuova, stimoli e stima.

(Rompere gli equilibri sembra essere la mia passione. Ingiustificata. Da sempre.)

È molto difficile quindi avere costanza nella scrittura e nella confessione quando si è continuamente in viaggio, in cambiamento. Quando si corre verso l’ignoto chiamato “IL MEGLIO”.

Quando un giorno stai sul melo e quello dopo ti ritrovi sul pero.

Quando “IL MEGLIO” non esiste o forse è semplicemente troppo grande.

La trasformazione avviene velocemente, l’insoddisfazione porta a grandi corse verso cose ”migliori” e non rimane mai il tempo di fermarsi.

Ecco, Atmosferica è una maratoneta ancora in cerca della giusta tecnica per ottimizzare il risultato. 

Sarebbe fantastico andare veloce, con il giusto respiro, minimizzando la perdita di energia e la mancanza di fiato.

La stanchezza sarebbe minore, le gambe leggere, la giornata più lunga e Atmosferica presente.

Sempre presente.

Tutto questo per dire che non mi sono mai fermata, non mi sono ancora data pace.

Sono in perenne ricerca, ho cambiato tre volte posto di lavoro da quando sono tornata.

Tornata?

Solo ora penso di avere la seria intenzione di fermarmi, riflettere, apprezzare quello che ho costruito in questi 27 anni, quello che ho raggiunto contando su me stessa senza mai stimarmi abbastanza, senza mai capire cosa realmente fosse “IL MEGLIO”.

Mi fermo ora a gustare i piccoli traguardi raggiunti cercando di accettare e frenare l’indole che mi porta a spingere sempre l’acceleratore della vita.

Vorrei parlarti più spesso, vorrei sentirmi connessa a te che, nonostante tutto, digiti “Atmosferica blog” su Google.

Lo vedo! Ti seguo, ti sento!

Leggo i termini di ricerca con cui entri in contatto con me e cerchi i miei scritti. Mi viene da pensare solo a cose belle, mi immagino un legame che sia positivo e ricco di comprensione anche se non ci conosciamo. 

Magari mi hai trovato per caso.

Mi identifichi come quella del “Viaggio in Australia”, “Atmosferica e artisti di strada”, “Maddaloni Atmosferica”, “Il Monaco che vendette la sua Ferrari”, “Atmosferica deserto”, “Respira, ascolta e ama”, “Atmosferica spirituale”, “Raccogliere pere Australia :)”, “Partire e non tornare”, “Nostalgia Atmosferica blog”, “Vivere a Sydney”…e tanto, tanto, tanto altro.

Queste sono alcune delle parole e delle frasi che ti portano a me. Per la prima volta in questi giorni o dall’inizio di questo viaggio mai finito e infinito.

Sono felice di aver creato questo angolo di cielo.

Un posto per pochi, di cari pensieri, profondi, ma accessibili a tutti. Sinceri.

Sono contenta sia tutto qui da leggere e respirare, ricordare e rivivere. Sognare.

Oggi, come il 12 Novembre 2015.

Anche io spesso mi cerco. 

Uso termini di ricerca a cui Google non trova risultato.

Mi cerco tra le parole della gente e tra le tue. Mi vedo. Mi ascolto, tra le mie.

Allora posso dire di esserci ancora e di averti scritto dall’angolo più vero.

Dal nostro angolo di cielo.

Grazie.

Erica, anzi Atmosferica.

Un motivo c’era.

Forse serve una mattina tranquilla anche se un po’ influenzata per lasciare che il corpo si rilassi e che la mente torni a viaggiare un po’.
Forse serve una fotografia ricevuta da Valentina, una mappa di quel Paese lontano che ancora oggi mi rende orgogliosa dei passi da gigante che mi ha fatto fare per poterlo attraversare tutto, da Ovest a Est.

Leggo dei nomi, vedo le poche e lunghe strade tracciate di rosso, le ripercorro con Amore ma senza nostalgia.
Lí ci sono andata davvero.
Un posto lontano di cui ricordo la fatica mentale, la mancanza di casa unita alla voglia di farcela. Un viaggio di scoperta e rivelazione che mi ha permesso di affermare la mia forza, il mio coraggio, la mia grande libertà, il mio “io”, il mio potere, i miei desideri.

“Australia” per me non vuol dire “canguri e ragni” ma molto di più. Per me significa Viaggio Interiore, cielo immenso e lunghe strade infinite.

Per me “Australia” è sinonimo di grandezza e infinito, indipendenza emotiva e fisica, lavoro stancante e tanta natura.

“Australia” è nel mio cuore e a volte me ne dimentico, concentro tutta l’attenzione sul presente senza pensare a quel posto che mi ha fatto rinascere, mi ha fatto imparare che “Se vuoi, Puoi” e che oltre alle meraviglie naturali c’è molto altro da scoprire, basta volerlo cercare e trovare.

Sono quasi felice, oggi, di non essere troppo in forma. Il mio corpo si è fermato per un motivo.

Sono contenta di poter volare su quell’aereo della mia crescita e sulle ali di quella scelta presa con grande coraggio. Un biglietto di sola andata, pochi soldi in tasca, la preoccupazione dei miei genitori e troppa voglia di dimostrare che “Un motivo c’era” e che dovevano fidarsi di me.

Dovevo fidarmi di me.

Mi serve guardare una cartina, mi serve leggere il nome della città di Perth in cui sono arrivata ma da cui non sono partita. Mi serve leggere Indian Ocean per rivedere onde alte e travolgenti, per sentire l’acqua gelida che mi bagnava i piedi e che voleva portarmi via, il vento forte e la sabbia dritta dritta sugli stinchi, gli schizzi in faccia, i surfisti che erano tanto bravi e coraggiosi ma mai troppo belli come tutti pensano.
I gabbiani sempre compagni, le rocce che cambiavano colore, i miei occhi illuminati dal cielo stellato, la notte.

Poi ritrovo il Nullarbor Plain, una distesa di niente e di sete, il vuoto più assoluto che ho riempito di pensieri, chilometro dopo chilometro. Auto-analisi, canzoni, risate al vento e tante fotografie. Uh, quante.

Detto questo…

Auguro a te, di ritrovarti nel deserto delle paure e delle incertezze per capire chi sei e da dove vieni, ma soprattutto dove vuoi andare.
Lí dove la mente è persa, l’unica possibilità che hai è creare la tua strada e farla tua in ogni curva e ostacolo.

Decidi tu la rotta della tua vita, lasciati guidare dalla tua essenza, e non potrai che prendere la direzione giusta.

Erica, anzi Atmosferica.

Thailandia e libertà.

Sto entrando nella fase in cui quel che mi circonda è normale e ordinario ma, ieri, parlando con Valentina, mi sono come risvegliata. Ho realizzato che tutto questo fa parte di una realtà a molti sconosciuta e inimmaginabile.

Cercavo di raccontarle e di descriverle la Thailandia, attraverso questa fotografia scattata in un momento di osservazione. Alle sue domande mi veniva difficile rispondere cercando particolari e dettagli che potessero essermi di aiuto. Richiamavo alla mente persone e luoghi che chiamo “Thailandia”, che ho inserito in questa scatola durante i miei giorni qui.
Ho riportato alla mente questa fotografia e la sensazione che ho provato nell’immortalarla.
Gelo.
Anche se il termometro segnava 35 gradi umidi.
Credo che qui si possa vedere chiaramente, si possa leggere e capire.
Una foto che potrebbe essere paragonata ad un racconto. Ad una storia.

I cavi della corrente attorcigliati a formare una matassa di grovigli paurosi. Un disordine che urla ovunque, in ogni piccola cosa.
Casa.
Lo ritrovo in ogni angolo, nei cani abbandonati e nelle catapecchie di lamiera che si affacciano sulla strada. Un disordine che grida aiuto o voglia di ribellione, non lo so, non l’ho ancora capito. Forse è un disordine che parla semplicemente di “Thailndia”.

Un’intera famiglia su un motorino. Erano circa le due del pomeriggio, forse i genitori erano andati alla scuola a recuperare le due piccole creature. Sì, perché anche qui ci sono istituti che provvedono all’istruzione ma sorge spontanea una domanda: “Quali insegnamenti vengono trasmessi? Quali regole condivise?”

Mi piacerebbe per un giorno entrare a scuola, alla scuola elementare. Vorrei assistere ad una lezione, ascoltare le parole delle maestre e capire cosa significhi per loro “Insegnare” e di conseguenza “Andare a scuola”.
Vorrei entrare nella testa di genitori e bambini e capire in che misura tengano alla loro vita, alla loro unica esistenza.
Non voglio essere polemica e nemmeno aggressiva ma non riesco a comprendere questa filosofia di estrema libertà che va a sorpassare la linea di confine tra sicurezza e rischio, tra responsabilità e totale mancanza di essa.

Quando vedo immagini di questo genere esce inevitabilmente Papà. Parlo con le sue parole, ragiono con la sua testa.
Come può un’intera famiglia rischiare la vita su un pericolante e vecchio motorino?
Si potrebbe optare per due viaggi o almeno per quattro caschi. Un solo genitore dovrebbe andare a recuperare i figli, una persona in meno farebbe la differenza.

Poi però, forse, riesco ad immaginare la loro povertà, la loro casa e la loro realtà. Lei forse lava i panni per 50 BATH al chilo, lui forse vende pollo allo spiedo. Un motorino è un grande lusso per loro, un cambiamento sensazionale per la vita famigliare, per quella dei due piccoli. Un piccolo mezzo su due ruote che ha la capacità di unire e di farli volare assieme, di riempire i loro cuori di orgoglio perchè sì, sono riusciti a risparmiare per permettersi un motorino sgangherato. Giorno dopo giorno sono riusciti a raggiungere un grande obiettivo, tra l’immondizia puzzolente e ricchi turisti che non potrebbero mai capire.
Sì, forse il valore va al di là della responsabilità.
Forse l’amore se ne frega di tutto.

Poi, da questa parte, da questo lato della strada, “La pizzeria di Ale”. Un italiano sulla quarantina che nella vita sogna di fare il sindaco. Vive sull’isola di Koh Phangan da cinque anni, un posto che per lui prende il nome di “Libertà” e che si riflette nei suoi lunghi rasta raccolti in una matassa, proprio come i cavi dell’alta tensione.
Un cartello scritto a mano e costruito con poveri pezzi di carta, segnala il suo locale sul ciglio della strada. Una stanza con qualche tavolo e un pannello di plastica giallo appeso alla parete, il menù.
Osservavo tutto con molta attenzione e parlare con lui mi ha permesso di capire meglio. La provincia di Perugia gli ha messo troppi paletti, troppi conformismi, troppa poca libertà. Qui può respirare a pieni polmoni la vita, può campare con poco senza doversi preoccupare delle tasse e delle bollette. Parlare in italiano ha permesso a lui di sfogarsi sui più disparati temi che riguardano il nostro Paese, il mio, il suo. La politica, Papa Francesco, il nuovo sindaco di Roma e le sue esperienze nel consiglio comunale del paese di Provincia da cui proviene. Era come se non vedesse l’ora di parlarne con qualcuno, ho letto in lui quasi una frustrazione, lo ascoltavo.

Davanti a tanta voglia di libertà, ritrovo puntualmente un forte ed innegabile senso di appartenenza alla bandiera tricolore. Ho visto una nostalgia intensa e sofferente, ho percepito una grande voglia di sentirsi italiano e di teletrasportarsi per un momento nel mio mondo, meno thailandese del suo.

Che cos’è quindi la libertà?

Finisce per non essere più riconosciuta in un Paese come questo dove non c’è nulla da fare per essere liberi, perché tutto è fuori controllo. Tutto è già troppo libero.

Questo è forse il mondo in cui, saziata la voglia di libertà, scatta inevitabilmente l’esigenza di regole, di radici e famiglia, di cultura e storia, di mamma e di papà, di linee guida che fino a prova contraria ci hanno portato fino a qui, fino al punto in cui è impossibile farne a meno per essere davvero felici.

Erica, anzi Atmosferica.

Il mare che unisce.

È stato bello, ieri, uscire dal lavoro e vedere Luca e Ilaria. Erano lì fuori, sulla panchina del parchetto, aspettavano che finissi per andare insieme a Bondi Beach. La gita del giorno.

“Andiamo in spiaggia?”

La domanda di Luca mi ha fatto pensare a come per me sia normale poter avere il mare vicino e nei suoi occhi ho visto la voglia di vedere il mare. Non lo vedeva da tanto. A volte me ne dimentico.

Il bus 333, da Elisabeth Street, ci ha portati direttamente in riva e la folata di aria oceanica che ci ha travolti appena arrivati, li ha lasciati un po’ senza parole. Ho visto. Ho fatto attenzione.

Spesso non vivo la mia esperienza tramite i miei occhi ma attraverso quelli degli altri. È bello e mi piace notare espressioni, l’approccio e la reazione.

La spiaggia di Bondi si stendeva dorata davanti a noi e non faceva caldo. Ho seguito i loro spontanei movimenti e ci siamo portati alla riva dove le onde sbattevano e i surfisti si lanciavano combattenti pieni di sfida e passione. I gabbiani erano tanti e l’acqua molto fredda. Il cielo di un azzurro intenso e la sabbia umidiccia. Non ci importava.

Lasciandoci sempre trasportare dal momento ci siamo trovati seduti, gambe incrociate e zero teli mare adatti all’occasione. Diretto contatto con la terra, con l’emozione. Abbiamo iniziato a parlare e io ascoltavo le loro sensazioni che magari uscivano ad alta voce. Luca commentava la potenza del mare e solo in un secondo momento si è reso conto fosse OCEANO. Quello vero, quello forte.

Ilaria parlava alla natura stando in silenzio. Scattava foto e si lasciava trasportare dagli impulsi. Si ascoltava.
Si avvicinava al mare quando questo la chiamava, lo guardava quando lo sentiva ed era tutto così, naturale appunto.

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Abbiamo lanciato pezzi di pane ai gabbiani che golosi come al solito facevano la guerra. Era bello puntare verso l’alto e vedere che acchiappavano il cibo al volo senza nemmeno lasciarlo prima cadere a terra, a sabbia. Gabbiani ingordi.
Anche Luca li ha conosciuti, finalmente. Ilaria già li conosceva.

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Non ti dico la mia sensazione nel condividere tutto questo con loro. Io, che fino a qualche giorno fa mi ci portavo da sola in quei posti, stavo offrendo qualche emozione anche a loro. Loro la stavano offrendo a me.

Uno scambio bello che mi mancava. Mi sentivo libera di ridere e oziare anche con loro, di ascoltare e cantare, di rotolarmi nella sabbia appiccicosa senza pensare che mi sarei sporcata i pantaloni. Libertà.

Verso le sedici e trenta la luna bianca alla nostra sinistra iniziava ad alzarsi nel cielo ancora azzurro. Ombra sul mare ma sole là, dalla parte di quelle case arroccate sulla scogliera. Quell’angolo che mi ricorda la Costiera Amalfitana.

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🙂

C’era con noi anche Elena. Una giornata tutta all’Italiana ma comunque nuova. Sto facendo incontrare persone che non si conoscono ma che potrebbero trovare qualcosa che le accomuna. Mi piace unire pezzi come meglio credo e vedere che disegno ne viene fuori. Ieri era bello, divertente e artistico. Era nuovo ed ero troppo felice di essere lì con loro.

È stato forse il primo giorno da quando sono qui, che non ho nemmeno guardato il telefono. Ad una certa ora l’Italia inizia a squillare, le amiche vogliono aggiornamenti e la mamma chiede se va tutto bene. Non volevo perdermi nemmeno un secondo di quel momento, me lo sono goduta in ogni regalo e sorpresa. Semplice.

Oggi è sabato. Stasera si uniranno altri pezzi a questo puzzle improvvisato. La mia collega francese organizza una cena per il suo compleanno e sono curiosa di vedere che ne verrà fuori, anche lì.
Sperimentare, conoscere, raccontare e scoprire.

Non penso ci sia nulla di più bello e stimolante. L’avventura che lega le persone, nel mondo.
Il mare che fa da tramite.

Erica, anzi Atmosferica.

Ero viva.

È giunto il momento della scrittura giornaliera. Sono spaparanzata sulla spiaggia paradisiaca di ieri, Frenchman Bay, e i miei pensieri mi stavano proprio parlando di questo. Non posso fare a meno di scrivere, sono diventata dipendente da questa liberazione quotidiana con cui getto nero su bianco parole e immagini. Vi avevo parlato qualche mese fa di questa mia recente passione… Ricordo che l’articolo s’intitolava “Scrivere.” ed ero appena arrivata a Perth.

Avevo parlato di come la scrittura sia terapeutica per me. Mi aiuta a seguire ogni pensiero dando priorità a quello più importante. Fatta una selezione, ne approfondisco uno con attenzione e ordine. È bello saper sguazzare tra i pensieri, affrontare a pugni duri anche i più brutti e poi tornare a quelli belli. Non so dirvi se nella mia testa vadano per la maggiore racconti fantastici o realistici ma la cosa bella è che la realtà che sto vivendo in prima persona è un sogno per molti di voi che leggono. Per questo mi impegno come una studentessa del mondo a raccontare quel che vedo e quel che percepisco come la più bella storia fantastica ma piena di realtà.

Vi parlerei oggi di quel che ho provato lassù, nel punto alto della collina che si gettava a picco nell’oceano. Wind Farm è il nome di questo percorso tra cespugli e rocce, che prosegue per qualche centinaio di metri ai piedi di gigantesche pale eoliche. A destra, girandole alte cinquanta metri catturavano il vento con forza indescrivibile e a sinistra, ai piedi della cespugliosa collina, l’oceano sbatteva con violenza sugli scogli. La stradina irregolare, formata da scure assi di legno come quelle delle terrazze di cui vi ho parlato ieri, seguiva la pendenza del terreno andando prima su e poi giù, verso destra e poi verso sinistra…era divertente seguire le sue tondeggianti forme.

Ad un certo punto, le assi in legno non proseguivano, la giostra era finita e un piccolo spiazzo di ghiaia, affacciava sul mare. Sentivo la gioia trapanare il mio stomaco, il vento sgusciare dentro ed ero un tutt’uno con la natura e con la sua immensità.

Mamma mia che potenza!

Che vento!

Ho cacciato un urlo di liberazione al mondo imitando la sua forza. Ho gridato con i pugni chiusi senza paura, senza blocchi, senza limiti. Ho alzato le braccia al cielo, non avevo protezioni, ero scoperta e al suo servizio.

Quell’urlo mi ha liberato i polmoni, sciolto le emozioni, per un attimo ho sentito la testa girare e mi sono dovuta sedere.

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Ero viva.

Ero piena di ossigeno o forse mancava del tutto…

…ma ero viva.

Erica, anzi Atmosferica.

Due scarpe appese.

Incuriosita e sorpresa, ho digitato su google queste parole:

“Scarpe appese fili corrente”

Ho scoperto che dietro a questo fenomeno, si nasconde un’arte, una storia, un racconto.

Lo “shoefiti”, racchiude in sè l’unione di due parole ovvero “shoe” (scarpa) e “fiti” (graffiti). Come potete apprendere, l’etimologia della parola spiega già molto. L’iniziativa ribelle di lanciare le scarpe legate da un laccio verso il cielo, nasce per la prima volta negli Stati Uniti e si diffonde poi in tutto il mondo.

Anche qui, a Pemberton, nel Western Australia, un signore che portava ai piedi scarponcini marroni da lavoro, ha deciso un giorno di liberarsene. Magari l’ha fatto per festeggiare un evento particolare, un nuovo lavoro o il matrimonio, magari per rendere nota a tutti una sua cattiva intenzione.

Dietro a due scarpe appese ai fili dell’alta tensione, si celano decine di leggende metropolitane che parlano di fatti positivi come avvenimenti importanti e nuove scoperte, come di spiegazioni raccapriccianti legate alla droga o a segnali in codice per ladri e malviventi.

Come sempre però, voglio viaggiare liberamente dando, a quel che ho visto e che noto ogni giorno camminando sulla strada, una motivazione tutta mia. Non mi interessano le teorie inventate nel corso degli anni perché tali rimarranno senza mai permettermi di sapere se quella vera è una, qualcuna o nessuna.

Era un uomo, sulla cinquantina.
Aveva lottato tutto il giorno contro il caldo infernale e contro quel sole che batteva sulle sue spalle, in quel campo immenso pieno di mucche rinchiuse a pascolare.
Sentiva i piedi caldi e costretti, chiusi e sudati. Avrebbe voluto toglierle quelle scarpe, avrebbe voluto sentire l’erba solleticare.

Quella sera, una strada in salita lo portava a casa e sentiva la sua vita scorrere sotto quel tocco rigido di passi veloci e stanchi.
L’asfalto emanava il caldo assorbito in una giornata e lui ancora pensava, pensava ma non agiva.

Visti i cavi dell’alta corrente, ha deciso bene di agire. Un filo alto nel cielo, avrebbe potuto liberarlo per sempre da quella sensazione di costrizione. Ha levato le scarpe dai piedi, con un laccio ha fatto due nodi. Le ha lanciate, urlando di gioia e finalmente si è sentito potente, quasi un mago, sorprendente.

Ha scelto il punto più alto e visibile a tutti. Un equilibrio impossibile ma realizzabile. Tutti quelli del Paese le avrebbero viste e avrebbero pensato…

“Pensa te, quel pazzo trasandato..”

Voleva farsi vedere tenendosi nascosto, liberarsi in alto e non buttarle in fondo ad un fosso.

Sono rimaste lì per anni, e resteranno lì per altrettanti. Ogni giorno, quell’uomo sulla cinquantina va a lavorare nei campi ricordandosi sempre di quei pensieri emozionanti. La libertà prima di tutto, poi il lavoro. Il solletico dell’erbetta fresca sotto ia piedi e il calore dell’asfalto sono ogni giorno per lui i due rimedi, dei magici antidoti o come dire, i suoi amici veri.

Io quell’uomo l’ho forse visto, e forse l’ho pure conosciuto. Chi lo può sapere. Ogni giorno è buono per poterlo incontrare.

Non avrei molte cose da dirgli se non…

“Complimenti Professore, da quelle scarpe appese, apprendo che avrebbe molto da insegnare!”

Erica, anzi Atmosferica.

Immenso cielo.

Certo che dormire in Vando, è davvero un’esperienza che non dimenticherò per il resto della vita. Ormai da un mese, è il mio letto, la mia casa, la mia valigia e il mio compagno di viaggio. È un angolo di pace e di ispirazione, mi coccola e mi riscalda. Mi fa compagnia quando dormo e quando scrivo. È tanto comodo.

Oggi mi sono svegliata con il dolce rumore della pioggia che si infrangeva sul tetto e le goccioline sul vetro a dieci centimetri dal mio naso mi hanno dato il buongiorno insieme all’atmosfera uggiosa di questa giornata.

Ricordo quando dormivo nella mansarda di casa e mi svegliavo a causa dei lampi e dei tuoni, intensificati dalle travi in legno e dagli oblò vetrati sul soffitto in pendenza. Mi ricordo quanto mi piacesse ascoltare il rumore della pioggia, rimanendo immobile sul letto, godendomi ogni singola goccia. Mi lasciavo cullare la sera addormentandomi in pochi minuti e la mattina…

tic

tac

tac

tic

Che bel risveglio.

Pensavo alle quantità di acqua che il cielo stesse riversando e a quanto fosse triste o talmente felice al punto di piangere. Amavo dormire all’ultimo piano della casa, quello più alto e verso il cielo, e non mi alzavo dal letto senza prima averlo ascoltato.

Mi sento un po’ così anche qui. Appena apro gli occhi, il cielo mi sbatte la sua luce in viso e sto imparando ad avere un buon rapporto con lui, accettando ogni giorno i suoi capricci e le sue gioie.

Ho visto tanti cieli qui.

Spesso di un azzurro inteso, poche volte capriccioso come oggi. L’ho visto in tutto il suo splendore nelle notti stellate in campeggio dove, appena cala il sole, il buio fitto permette di captare i miliardi di punti luminosi che brillano più del solito. Un po’ come quando dicono che se vai nel deserto, vedi tutte le stelle più luminose.
Beh, nel deserto non ci sono ancora andata ma vi assicuro che la vista da qui, è spettacolare.

Ho visto nuvole immense correre insieme a noi nei nostri lunghi viaggi, ho dato a loro una forma, un nome e una vita. Qui il cielo è diverso, è più grande e più alto. I nuvoloni che coprirebbero un’intera città, qui sembrano piccoli, irrilevanti.

È proprio vero che la grandezza del contenuto dipende SEMPRE dal contenitore.

Mi è capitato di guardare all’orizzonte del mare e di fare un confronto tra la vastità dei due infiniti. Quante volte il cielo si superava, lo superava e lo schiacciava.

In Australia è tutto più grande e mi sento sempre piccolina ogni volta che mi concentro su quel che mi circonda. Distese di mare, di cielo, di sabbia o di erba secca portano i miei pensieri lontani vogliosi di raggiungere quella riga netta e orizzontale che mette fine alla mia corsa.

Ogni passo che fai, sposta la linea un passo più in là. Non ci sarà mai un modo per raggiungerla.

Il cielo non ha limiti, non conosce spazi e confini. È veloce ma anche molto lento e può riempirsi di un pianto che può durare giorni, come di una felicità ogni volta colorata.

Voglio assomigliare un po’ a lui, non voglio avere confini ma solo orizzonti irraggiungibili. Voglio conoscere la mia tristezza e farla sgorgare in un pianto, voglio essere radiosa come quel blu intenso e ricoperta di grandi nuvoloni che corrono via a velocità supersoniche.

Voglio cambiare ogni giorno, stupire chi mi guarda e regalare sorprese. Voglio essere immensa, alta e luminosa. Voglio colorarmi di blu, di bianco, di azzurro e di grigio. Voglio essere di un nero impenetrabile ma limpida e trasparente. Voglio vedere paesaggi magnifici e viaggiare sopra ogni bellezza del mondo. Voglio vedere, scrutare ed esaminare tutto dall’alto senza mai perdere la visione del tutto. Voglio volare insieme ai gabbiani e stare seduta su montagne di un soffice bianco. Voglio rotolare, riposare e cadere giù con la pioggia rimbalzando sopra a una nuvola di passaggio.

Voglio anche essere uggiosa e grigia perchè tanto poi…

…esce sempre il sole.

Erica, anzi Atmosferica.

L’artista di strada…

…mi ha sempre colpita, affascinata e incuriosita.

Di qualsiasi strada si tratti, in qualunque città si trovi, è una figura ricorrente, non manca mai e regala magia e rende ricca una via, deserta.

Puntualmente.

Per artista intendo chiunque abbia voglia di regalare, di sedersi sul ciglio della strada donando quello che di più genuino e profondo ha, non pretendendo nulla in cambio. Nel caso, una libera offerta.

A questo proposito voglio dire che donare il “vero” non è mai semplice, nemmeno quando si tratta di scrivere. Non è facile.

Una moneta, quindi, io la lancio sempre.

C’è chi suona la chitarra, chi suona il piano o il bongo. L’artista giovane, l’artista tondo. Quello che canta con un filo di imbarazzo, il mimo, la sfera, il pittore o il ritrattista, il povero anziano che gonfia palloncini vestito da pagliaccio e quello vestito da Babbo Natale. Che spasso. Un gruppo di giovani viaggiatori che arrivano chissà da dove o che si sono incontrati strada facendo, i due amici da una vita che vogliono solo fare quello, cantare per la strada. Fare bordello.

Mi sono sempre fermata ad ascoltare una bella voce, o a lasciare una piccola moneta nel cappello cappello. Di seta.

Il talento va premiato.

Qui a Perth è pieno di artisti di strada.
Il pomeriggio cantano o suonano nelle vie principali del centro, la sera a Northbridge dove ci sono i grandi locali e i frequentati punti della movida australiana. Quella volta ci siamo fermati, con le nostre mani seguivamo il ritmo scandito dai tamburi. Liberavano in aria farfalle colorate, luci velate. Erano ragazzi giovani e suonavano per stare bene, per farti stare bene.

Noi stavamo bene.
Io stavo bene.


Qui di seguito, una mia nota scritta il 2 Marzo 2015 a Milano:

Passeggiando per Corso Vittorio Emanuele.

Passeggiando per Corso Vittorio Emanuele mi sono fermata ad ascoltare un artista di strada che suonava splendidamente la sua tromba. Uh come la suonava.

Era accompagnato da una melodia musicale di una famosa canzone di Rhianna e creava un’atmosfera fantastica, incredibile, emozionante. Non faceva nemmeno troppo freddo ma, nonostante ciò, lui suonava con degli occhiali scuri a coprire il viso e, come se non bastasse, un nero cappuccio sul capo.

La faccia non si vedeva ma il suo talento sì.
Quella moneta la meritava.
Eccome se la meritava.

Ad un certo punto un senzatetto è passato di lì.
Ciondolava e barcollava, era strafatto di chissà quale sostanza. Urlava, gesticolava.
Deridendo l’artista di strada, si è avvicinato dal dietro, a piccoli passi quasi per beffa, senza rispetto.

“Coglione! Levalo il cappuccio… Almeno ti si vede in faccia!”

Con un gesto distratto e violento gli ha toccato il capo.

L’ha spento.

Non potete capire come quella scena mi abbia stretto il cuore.
Avrei voluto urlare.

Il musicista è rimasto a bocca asciutta senza nemmeno riuscire più a suonare la sua tromba.
Stava senza fiato.
Io l’ho sentito.

La sua risposta però è stata grandiosa…esemplare.

“Cosa te ne frega della mia faccia? La musica è fatta per ascoltarla. Quando apprezzi un quadro, lo apprezzi e basta senza aver visto la mano del pittore. Lo guardi e l’arte ti piace, senza domande, senza risposte. L’arte è fatta per creare emozioni e tu, ora, le hai rovinate a me e a tutti quelli che mi stavano ascoltando senza pretendere di vedere il mio viso”.

Con aria rassegnata..il musicista ha chiuso la sua valigia e se n’è andato.

Sono contenta però…
Un caffè gliel’ho regalato.

Erica, anzi Atmosferica.

Freedom.

La sensazione era quella.

Freedom.

Libertà.

Una sola parola che racchiude una sensazione, una filosofia, una volontà, un desiderio, una ricerca, il vuoto, il pieno, i colori, l’infinito, il cielo e un volo.

Molto di più di quello che hai, è la libertà.

Intendila come vuoi, pensala come ti viene e quando la immagini cerca di non porti limiti.

Non sentirti vincolato, rincorri l’impossibile e abbi sempre il coraggio di darle la mano.

Sono andata in un posto magico, mi ha aperto il cuore, lo stomaco, il respiro e c’era tanta luce.

Tante piccole isole, ognuna con un nome.

Rockingham.

Il vento era sempre più forte, le nuvole viaggiavano veloci e quando mi coprivano avevo freddo. Poi caldo, poi freddo.

Mi lasciavo scaldare e poi raffreddare, scaldare e poi raffreddare.

Freedom.

Libertà.

Erica, anzi Atmosferica.


Ps: corro al lavoro da Fast Eddy’s! Turno dalle 8 alle 15! Orario del cavolo ma sono felice! 🙂